
NON LASCIAMO INDIETRO NESSUNO, PER FAVORE!
Ho una agenda in cui prendo nota degli appuntamenti per l’ambulatorio di cure palliative simultanee-precoci e per le consulenze in MAC (Macroattività Ambulatoriale Complessa) e day-hospital oncologico. Il 24 febbraio su quella agenda ho disegnato una corona, come quella dei re e delle regine delle favole, con sotto la scritta “VIRUS”. Gli appuntamenti previsti erano tutti occupati, si aggiungevano quelli per i pazienti da visitare fuori lista perché sempre troppi rispetto ai tempi codificati; piene le consulenze da gestire, da sola o assieme ai colleghi oncologi.
Lo stesso disegno compare per altre cinque settimane, in cui l’agenda diventa quasi uno specchio della situazione esterna: una confusione di spostamenti, cancellature, sovrapposizioni, un sovraccarico di lavoro. In quelle settimane la situazione intera si stava complicando: nel dipartimento di onco-ematologia a cui apparteniamo si cercava di stabilire e mantenere delle priorità, condividere le scelte, non abbandonare nessun paziente a causa della redistribuzione delle risorse.
Mi ricordo di come all’inizio ci mettessimo tutti le mascherine chirurgiche (le uniche disponibili) con un po’ di insofferenza: una mascherina tenuta continuativamente in ambulatori spesso senza finestre e in cui si sta per ore senza ricambio di aria è fastidiosa e non vedevamo l’ora di stare un po’ da soli per togliercela e respirare. Ci pareva quasi esagerato. Era ancora il momento in cui l’accesso all’ospedale, nonostante una grande riorganizzazione in atto, era il solito e poco sembrava essere davvero così cambiato.
Poi sono comparse anche le transenne, le code, le misurazioni della temperatura all’ingresso dell’ospedale e poi ancora ad ogni ingresso e magari di nuovo per l’accesso al day hospital.
I pazienti dell’ambulatorio di cure palliative telefonavano con l’ansia di sapere se noi continuassimo la nostra attività: avevano paura di venire in ospedale ma anche che potessimo chiudere tutto e di non avere più un punto di riferimento. I medici di medicina generale si affannavano a fare quello che riuscivano ma la richiesta sul territorio era tanta e le protezioni ben poche, il Pronto Soccorso era intasato ed era ormai chiaro che fosse l’ultimo posto adatto per pazienti fragili e bisogni che non fossero legati al virus SARS Cov2. La paura di restare soli, invece, era tanta.
Abbiamo scelto di restare sempre disponibili, telefonicamente e via mail per tutte quelle situazioni che era possibile cercare di gestire da lontano, in ambulatorio dando la precedenza ai pazienti che non erano più legati alle terapie oncologiche e trasformando le consulenze in visite ripetute per i pazienti che venivano per le chemioterapie. Come tutti, abbiamo riorganizzato il lavoro per poter dare il massimo della continuità.
In questo percorso, la sera del 27 marzo, esattamente il giorno prima del mio compleanno, sento dei brividi, un gran mal di testa, male a tutti i muscoli, mal di gola e una spossatezza infinita.
Ho scelto di auto-isolarmi anche perché, nel frattempo, mio cognato era stato ricoverato con polmonite da Covid. Sono rientrata in servizio subito dopo Pasqua e dopo i regolari due tamponi negativi.
L’esperienza del mio malessere e dell’isolamento, contemporaneo alla malattia e ai ricoveri di mio cognato, mi hanno aiutato a capire meglio, a “sentire” di più quello che è successo. Rimanere confinati in una stanza per giorni, vedere la tua saturazione a 95 e domandarsi se è una influenza normale o no, non riuscire a comunicare con qualcuno che sai quanto stia male e che non ha neanche la forza di parlare al cellulare, sentire l’angoscia di tua sorella, chiusa in casa; non riuscire ad avere notizie per giorni e poi veder tornare a casa un uomo che sta male come prima e che da lì a poco avrà bisogno di un nuovo ricovero per complicanze severe.
Oltre alla preoccupazione, ho sentito una rabbia da “ingiustizia”, perché quell’uomo è stato ricoverato in tempo nel primo ospedale disponibile solo per la disponibilità del mio saturimetro (non ce n’erano e nessuno andava a casa a controllare la situazione finché non fosse precipitata) e poi ancora, dopo un precario ritorno a casa, per la capacità di lettura dei sintomi di un aggravamento e grazie all’aiuto di colleghi in ospedale. Chi non ha avuto un medico vicino non è stato così fortunato, spesso.
Ho sentito che profonda differenza esista tra sentirsi lontani, non informati, esclusi e avere rassicurazioni e voci gentili che ti informano di quello che sta succedendo; ho pensato a tutti quelli che nemmeno queste possibilità hanno avuto, a quanta solitudine, impotenza, angoscia devono avere vissuto assieme ai loro cari, anzi, lontani da loro. A quanta sofferenza per chi è stato male, per chi è morto, per chi, nelle RSA o all’interno degli ospedali, per esempio, le cure palliative non le ha potute ottenere.
Non tutte le persone che erano già malate hanno potuto continuare ad essere curate come prima, nemmeno i nostri pazienti dell’ambulatorio che, nel trascorrere del tempo, hanno visto l’aggravarsi della malattia. Alcuni di essi ce l’hanno fatta ad essere presi in carico da équipe di assistenza domiciliare, altri sono finiti in Pronto Soccorso, proprio quello che cerchiamo di evitare; spero che nessuno sia morto da solo.
Quelli in discrete condizioni hanno potuto continuare ad accedere alle terapie e agli ambulatori rimasti aperti. In day hospital hanno potuto entrare solo i pazienti, a meno che non fossero più autonomi. Hanno avuto, e hanno ancora, bisogno di tanta gentilezza e pazienza in più perché stare per ore in un letto o in una poltrona mentre fai la chemioterapia senza nessuno vicino non è facile, tanto meno quanto più sei fragile. Questo è il motivo per cui anche qui tutti noi ci siamo fatti tramite, attraverso tablet e cellulari, di messaggi con chi stava fuori, magari in un atrio oppure in macchina, ad aspettare di potersi occupare di nuovo del proprio caro.
Nell’ambulatorio di cure palliative (ma anche nelle consulenze condivise con gli oncologi), invece, abbiamo sempre fatto entrare i parenti, non era pensabile fare differentemente.
I nostri pazienti sono tutti fragili, perlopiù anziani, spesso con la paura sia di non riuscire a ricordarsi di dire tutto quello che volevano, sia di non ricordarsi tutto quello che viene loro detto, anche se scritto sulla relazione; un po’ spaventati dalla situazione di caos e di tensione che si respira ancora in ospedale, a volte disorientati dalla presenza di operatori con cuffie, maschere e occhiali. I famosi dispositivi di protezione individuale, anche grazie all’aiuto di Una Mano alla Vita, ora sono maggiori e ciascuno di noi operatori, in effetti, da una parte si sente più tranquillo, dall’altra ha imparato a comunicare anche se mutilato della mimica facciale. Abbiamo scoperto quanta emozione e quale intensità possa concentrarsi negli sguardi, però mi mancano tanto le mani strette e gli abbracci dei miei pazienti e, di quelli che ho conosciuto da poco, spesso penso che molti non mi hanno davvero mai visto in faccia, sempre mascherata come sono.
Tutti ora stiamo cercando di ritornare verso una normalità, che pur continua a contemplare precauzione e anche un filo di disagio (che mantiene alta la attenzione).
Dopo questo momento così difficile e in questo “nuovo tempo” quello che io mi porto dentro come un dono prezioso per attraversare il non lunghissimo spazio che avrò ancora davanti per il mio compito professionale è che tutto quello che ho visto e vissuto mi ha fatto scegliere con amore, di nuovo, il mio lavoro: per questa possibilità continuo a pensare che sono stata e sono molto fortunata.
Arianna Cozzolino