
È sempre stato difficile spiegare come facessi a separare la vita lavorativa da quella familiare. In genere i commenti per chi si occupa di cure palliative sono i più vari, da un “caspita, non so come fai!” a “sicuramente ti sarai abituato” all’”avrai le tue strategie per stare distaccato e non portarti nulla a casa”.
Chi mi conosce sa, invece, che si può avere una continuità di presenza e di umanità a casa e al lavoro, si può essere la stessa persona e crescere contemporaneamente in uno e nell’altro contesto non fuggendo il dolore ma attraversandolo.
Ho attraversato tanti cicloni nella mia vita, tanti ne ho vissuti al lavoro, tanti mi hanno rinforzata e cambiata.
Il più recente ed anche uno dei più intensi è stato quello dell’epidemia covid 19.
Quando è scoppiata era nato da poche settimane il mio nipotino Oliver, figlio di mia sorella che vive in Toscana. Per varie ragioni consideriamo questo bambino un piccolo miracolo e desideravo tantissimo vederlo.
Ma scoppiata l’epidemia non ho più avuto la possibilità, non ho voluto rischiare di contagiare una neomamma ed un bambino piccolo.
Infatti il nostro ospedale ha iniziato immediatamente a ricoverare casi covid positivi, qualcuno della zona e molti provenienti dalla bergamasca, complice la vicinanza territoriale. Ed anche noi, in hospice, abbiamo avuto presto un primo caso positivo tra i nostri ricoverati.
Il punto era, però, che non eravamo così bene attrezzati: a parte la buona volontà mancavano i necessari DPI (dispositivi di protezione individuale): mascherine e camici, soprattutto.
Ci siamo ritrovati a dover prestare assistenza a persone che dovevano stare in isolamento, dunque completamente private delle visite di familiari, potendo noi stessi essere protetti in maniera non ottimale. Anche se ciascuno di noi cercava di non contaminarsi tutti abbiamo avuto paura per noi stessi ma soprattutto per gli altri, le persone a cui vogliamo bene oppure anche la popolazione che non volevamo rivedere in ospedale. I malati positivi al covid ricoverati da noi sono presto diventati tutti, il reparto ha richiesto l’apertura del doppio dei nostri posti letto. Quello che succedeva era che, per utilizzare lo scarso materiale che avevamo, capitava di trovarsi in una camera dove si era sostato a lungo con indosso la sola mascherina chirurgica per rendersi conto, qualche ora dopo, che il paziente riceveva una diagnosi di positività.
Inizialmente ho pensato a proteggere i miei figli ed i miei genitori in ogni modo. Anche a casa indossavo sempre una mascherina chirurgica, mi toglievo le scarpe nella cantina, non abbracciavo i miei bambini quando rientravo ma andavo diritta a fare una doccia e a mettere tutta la mia roba in lavatrice. Di solito mi piace indossare scarpe ed abiti carini e colorati ma dall’inizio dell’emergenza mi vesto con vestiti facili da lavare ad alte temperature, sono sempre uguale come Olivia di Braccio di Ferro.
Cenavo anche per ultima, inizialmente cercavo di non farlo pesare ai bambini e mi sono inventata di leggere loro, seduta in corridoio, di fronte alla cucina. Ma mio figlio Carlo, dopo un po’, ha iniziato a dirmi che gli mancavano soprattutto le coccole e Guido, l’altro fratellino, mi diceva che era un periodo proprio brutto perché io facevo un lavoro davvero brutto.
Ho anche iniziato a dormire da sola, sul divano.
È passato ancora poco tempo e sono comparsi altri problemi: alcuni colleghi coi quali lavoravo quotidianamente erano risultati positivi al tampone che avevano fatto perché sintomatici. Alcuni stavano proprio male. Così non ho nemmeno pensato quando ho dovuto dare la mia risposta ad una mail aziendale che invitava gli operatori a contatto con casi covid positivi a segnalare se non fossero in condizioni abitative tali da garantire un’assenza di promiscuità familiare (avrei dovuto avere una camera solo per me e un bagno personale ma in casa siamo in sei e non ce l’ho proprio).
Probabilmente siamo in tanti nella stessa situazione, la risposta che dovrebbe essere cautelativa e permettere di spostare in un convitto gli operatori non è ancora arrivata.
È però un periodo che fa emergere le parti migliori di noi se ci sono: sono state tante le donazioni a favore degli ammalati e anche la solidarietà verso gli operatori. Abbiamo avuto i tablet con cui ho iniziato subito a mettere in contatto malati e famiglie (dopo avere usato un po’ il mio cellulare personale)e grazie a Una Mano alla Vita, l’aiuto di un’infermiera sul territorio per tenere a casa propria e ben assistiti tutti i malati che potevano. Anche questa è una pecurialità del nostro intervento: una capillare presenza sul territorio. Un benefattore ha offerto la casa della mamma che avevamo assistito mesi prima in hospice, come possibile rifugio per qualche operatore che ne avesse avuto necessità.
Così ho fatto richiesta io. Ho trovato una persona generosa e gentile che mi ha anche recapitato un dolce e dell’arrosto per la mia Pasqua solitaria.
Nel frattempo è finalmente arrivato del materiale per vestirci in sicurezza, una quantità sufficiente da poter essere utilizzata secondo i criteri previsti. Lavorare in sicurezza è fondamentale per preservare dal contagio chi resta a casa.
Questo è il problema di tanti operatori. È il nostro lavoro stare accanto agli ammalati ma desideriamo farlo senza far ammalare nessun altro, desideriamo trascorrere nelle camere il tempo adeguato a prenderci cura dei nostri sfortunati ospiti.
È vero che la nostra non è una prima linea in cui si salvano le persone; fino ad ora, colmi di emozione, abbiamo dimesso una sola nostra paziente. Ne abbiamo seguiti oltre 80 in un mese e mezzo, tante persone a cui restituire la dignità di morire bene accompagnate, di avere riconosciuta un’umanità. Noi ci siamo, resteremo accanto al malato ma desideriamo farlo con la maggiore sicurezza possibile, certi che il nostro lavoro non lo sarà mai del tutto ma consapevoli di avere fatto tutto il possibile sia per i nostri pazienti che per i nostri cari.
Nausika Gusella