
LO SGUARDO NUOVO
E’ il primo giorno di marzo del 2020. Da una settimana il coronavirus è entrato nelle nostre vite. L’impatto che avrà sulla vita delle persone di tutto il mondo è ancora per molti aspetti nascosto, ma per un sanitario è già qualcosa di nuovo e che – capiamo – non ci dimenticheremo in fretta. Sono in macchina e sto tornando dalla montagna: il giorno in cui hanno annunciato il primo paziente conosciuto in Italia, a Codogno, eravamo in viaggio per una settimana sulla neve. Ho lasciato la mia famiglia su, un paese del Veneto noto per le sue dolomiti famose in tutto il mondo, in attesa di capire meglio che succede: mia moglie e i miei 5 figli tra cui due gemellini di 9 mesi.
22 maggio 2020. Dopo 83 giorni di isolamento a Milano rivedo la mia famiglia. Mi sono perso il primo compleanno dei gemelli, Davide e Michele, e quello di Cecilia, la figlia maggiore. Su quello che è successo in mezzo è stato scritto e riscritto il possibile, e su quello che succederà da qui in avanti verrà scritto altrettanto. Mesi di paura e coraggio, di speranza e sconforto, di vite stravolte. Per tutti un tempo nuovo che ci ha costretto a fare i conti con noi stessi. La mia è una storia unica, ma simile a tante altre: storie di distacco, di affetti strappati all’improvviso, di solitudine, di lontananze. Tuttavia mi ritengo fortunato, finora. Sono stato bene e anche la mia famiglia. Ho cercato di dare il meglio ogni singolo giorno per curare i malati che mi sono stati affidati. Ho fatto di tutto per proteggermi e per proteggere. Ho sfruttato il tempo anche per scrivere, aiutare, educare, rispondendo alle tante domande e paure delle persone intorno a me. Ho riscoperto quanta gente ha fiducia in me e mi vuole bene, con una nuova vicinanza a persone che erano andate un po’ perdute nelle pieghe delle rispettive storie personali. Ho un lavoro che amo, e uno stipendio per la mia famiglia. Nessuna di queste cose è scontata in questo momento.
Non so che cosa ci riserverà il futuro, sotto tanti punti di vista. Non lo so se “andrà tutto bene”. C’è però una speranza che mi piacerebbe condividere, ed è la speranza di uno sguardo nuovo che a tratti ho intravisto in me e in tante persone che hanno cercato di non cedere alla paura, all’irrazionalità e alla disperazione.
Innanzitutto uno sguardo verso l’altro più consapevole: il forzato distanziamento sociale e la necessità di lasciare agli altri uno spazio fisico mi ha fatto rendere più consapevole della presenza dell’altro come persona, con la propria storia, le proprie speranze, i propri desideri, le proprie fatiche. Non solo verso i malati e i familiari, spesso costretti ad un drammatico isolamento anche nell’affrontare la malattia e talvolta la morte. Ancora oggi mi capita di guardare in modo diverso e scambiare parole con persone a cui prima rivolgevo solo uno sguardo fugace e al più una parola cordiale: il cassiere del negozio, il ristoratore, il farmacista, e tante persone comuni incontrate per strada o magari in coda per fare la spesa. Questo sguardo più attento è stato potente tra colleghi, perlomeno tra chi – la stragrande maggioranza – non è stato travolto dalla paura, nella consapevolezza che il comportamento di ognuno fosse fondamentale per tutti gli altri. La protezione reciproca ha moltiplicato le attenzioni verso momenti di fatica e stanchezza maggiore, con disponibilità ad aiutare e farsi aiutare.
Come persona di Fede credo poi che Dio ci chieda uno sguardo nuovo verso il Creato, il mondo in cui viviamo, e verso dei valori essenziali che sono lontani dal consumo spesso acritico ed eccessivo di cose ed esperienze, che caratterizza soprattutto società dove la ricerca del benessere personale ha scavalcato quella della qualità delle relazioni. Credo peraltro che questo sia condivisibile anche da chi nel proprio cammino spirituale di ricerca è lontano da una fede in Dio.
Roberto Scarani