Dentro al progetto Sostieni-MI

Secondo un recente articolo del “Journal of American Geriatric Society” l’efficacia delle Cure Palliative negli ultimi mesi di vita è influenzata in modo rilevante da fattori non clinici, che evidenziano la necessità di allineare i trattamenti con le preferenze individuali. C’è dunque un accordo nel ritenere che nel fine vita, per affrontare problemi di natura fisica, psicologica, sociale e spirituale, un approccio personalizzato, globale e multidisciplinare sia il più adeguato.
Con questa concezione di cura nasce il progetto “SOSTIENI-MI” che offre assistenza e supporto psicologico ai pazienti, caregiver ed operatori sanitari della struttura hospice Il Tulipano attraverso l’inserimento di una figura specializzata e l’utilizzo di quelle che vengono definite
“terapie complementari”, nello specifico musicoterapia e pet therapy, che svolgono un ruolo importante per il miglioramento nel controllo di sintomi fisici dei pazienti con malattia cronica progressiva, ma soprattutto nel migliorare sensibilmente gli aspetti emotivi, relazionali e la comunicazione di tutte le figure coinvolte (paziente, caregiver, operatore).
Di seguito vi raccontiamo come le attività vengono realizzate e come si creano delle sinergie tra operatori complementari e operatori sanitari, quali risultati si possono ottenere e si raggiungono con i pazienti e i familiari, oltre a testimonianze/racconti di casi particolari.

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Dott.ssa Barbara Lissoni – Psicologa

In Hospice, al domicilio, nelle consulenze e negli ambulatori di Cure Palliative in Niguarda l’aspetto psicologico è trasversale: lo psicologo si occupa di pazienti, familiari ed operatori. Nel nostro Hospice l’attenzione al lavoro di équipe e alla cura dei curanti resta il cardine dell’attività e del ruolo dello psicologo, senza nulla togliere ai pazienti e famiglie, che nel fine vita hanno bisogno di cura in ambito emotivo, di integrazione, di identità e di terapia della dignità.
A questo proposito abbiamo ritenuto centrale lo strumento della narrazione, l’ascolto di un narrare del paziente e del familiare che possa favorire il cambiamento terapeutico possibile.
Partiamo dal presupposto che la mente sia una narratrice molto creativa e abile e che nel raccontare vi sia una forma di conoscenza sociale, cognitiva, affettiva che correla il presente con il passato, attribuendo ad esso un senso. L’ascolto e la ripresa da parte di noi operatori aumentano e modificano il tempo presente dei nostri pazienti e familiari, perché condividere porta a comprendere non solo il passato, ma anche a proiettarsi in una dimensione di orientamento all’azione favorendo un’operazione di consapevolezza in quanto equivale a costruire una propria visione di se stessi e del mondo. Oltre ad essere quindi un essenziale strumento relazionale, la narrazione rappresenta anche, e soprattutto, la via attraverso cui dare forma alla propria identità. Sono le storie che le persone raccontano e si raccontano della propria vita a determinare il significato e narrarle dà loro un senso, le inserisce in un contesto, in un tempo e quindi in una storia già esistente.
L’attività narrante quindi si completa e acquista senso solo se c’è un “tu” che ascolta. Non è sufficiente, infatti, che qualcuno narri se non c’è nessuno che ascolti ciò che sta narrando, ai fini di un viaggio che permette di portare alla consapevolezza alcuni indicibili, che vengono condivisi ed accolti dagli operatori stessi. Accompagnare alla morte per medici, infermieri, oss (operatori socio sanitari), psicologi significa nominare gli indicibili spaventosi e mostruosi insieme al paziente ed al familiare qualora lo volessero. Inoltre alla fine della vita per pazienti, familiari e operatori le emozioni si possono incendiare ed inaridire; anche le emozioni possono ammalarsi ed intaccare la relazione affettiva di cura. Il Professor Borgna sottolinea, per quanto riguarda la psichiatria, ma mi sento di avvicinare i contenuti anche alle Cure Palliative, come “l’affettività sia la struttura portante della cura e come nel prendersi cura siano intensamente implicate le emozioni di chi cura e di chi è curato” (E. Borgna: “L’arcipelago delle emozioni”, Feltrinelli, pag. 187).

“Io, infermiera, entro nella stanza, mipresento al paziente Guido che mi chiede che funzioni/ruolo ho e gli viene spiegato. Il paziente inizia a parlare e dice di rendersi conto di avere il cervello in confusione, di esser un parassita sulle spalle della moglie su cui lui si è appoggiato in tutto e per tutto. Ammette di avere sbagliato e che doveva essere più combattivo e reagire per non essere di peso alla moglie di cui dice di essere tutt’ora innamoratissimo, che è una donna fantastica, buona, dolcissima e che con lei ha fatto una vita bellissima. Dice anche che deve capire ancora dove si trova e cosa deve fare. Ha lavorato tanto nella sua vita e ha fatto tanti lavori. Si rende conto anche che peggiora nei suoi movimenti, che il suo cervello è rallentato, che si dimentica le cose e questo gli pesa, si sente inutile”. (Infermiera dell’Hospice, febbraio 2022)

Solo in queste poche frasi, l’infermiere raccoglie la persona del paziente che esprime bisogni sottesi: spesso il “fare”, nel senso di agire tecnicamente in maniera corretta, aiuta a proteggere dalla sofferenza, dal coinvolgimento eccessivo, dal tema “morte”, portando medici, infermieri e oss a distaccarsi per non sentire troppo. Il ruolo dello psicologo con i curanti è avere uno sguardo di cura su di loro attraverso la formazione permanente, spazi di ascolto emotivo, supervisioni, affiancamenti ai colloqui difficili per fornire la competenza di “so stare” davanti a frasi come quella sopracitata.
All’ingresso un paziente esprime all’infermiera: “é terribile l’immobilizzazione, in cui bisogna dipendere da qualcuno. E’ terribile aspettare qualcuno se hai bisogno di alzarti per prendere quella cosa”. Nomina successivamente il bisogno di accettare il presente, tuffandosi nei ricordi della storia del suo negozio di dolciumi a Genova, esprimendo la propria dignità di uomo e professionista.

L’équipe giorno per giorno rispecchia l’umanità, il potere personale di poter decidere fino alla fine la propria direzione che restituisce la dignità necessaria di “essere” ancora capace. Il supporto ad operatori che, in ogni momento, oltre ad avere una competenza tecnica devono saper anche navigare in emozioni e contenuti relazionali, è di prevenzione a stress lavorativi e burn out.

I nostri pazienti e gli operatori con loro si muovono nei tre tempi esistenziali: il presente del passato (la Memoria), il presente del presente (la Visione), il presente del futuro (l’Attesa). La competenza si rileva nella capacità di sostare e muoversi tecnicamente in questi tre tempi in un lavoro sinergico di équipe: medici, infermieri, oss, psicologi, musicoterapeuta, cure estetiche, pet therapist, laddove ognuno apporta la propria competenza ed umanità.

 

Daria Da Col – Conduttrice Pet Therapy

Attenzione al cane e a tutto il suo staff” recita simpaticamente il cartello all’ingresso dell’hospice di Niguarda.
Il legame uomo/cane e pet therapy/ équipe curante è alla base di una modalità terapeutica potente: la medicina integrata.
Dal 2009 facciamo pet therapy in Hospice, realizzando sedute per diverse centinaia di ore e utenti. In alcuni casi il cane interagisce con un rapporto “uno a uno” con il malato nella sua camera; in altri le sedute programmate sono collettive, in soggiorno, destinate ai malati e ai loro familiari: in entrambi i casi l’energia è spesso alta ed emozionante e la stanza è piena di sorrisi ed emozioni.
Da tempo si riconosce che i cani hanno un effetto calmante e terapeutico sui malati, allentano la pressione dei problemi quotidiani. La letteratura documenta, tra numerosi dati di efficacia della pet therapy: miglioramenti dei parametri fisiologici e psicologici (tipicamente: diminuzione di depressione, ansia e dolore) e altri risultati positivi riportati dal malato e dai caregiver (per esempio aumento delle interazioni sociali, anche con i membri dell’équipe e dell’accettazione delle cure; percezione di una migliore qualità di vita; soddisfazione per l’assistenza ricevuta e fornita).
Per una sorta di vantaggioso “effetto alone” che la pet therapy porta con sè, l’intervento sul malato trasferisce il suo carico benefico su altre persone e nel contesto.

“Quando Popper è in servizio, l’ambiente è sempre più leggero e gli utenti più felici e più collaborativi”. “Il cane è un collega che ci fa sorridere e ci aiuta ad alleggerire il carico emotivo” (citato da infermieri dell’Hospice).

“Cerco di arrivare quando c’è il cane. perché mi è più facile entrare in camera e in relazione con mia mamma”. “Ho scelto di portarlo qui perché c’è anche il cane, e quando vedo che prende la seduta come un’isola su cui rifugiarsi, mi sento più serena, sento che ho fatto e sto facendo il meglio per lui” (citato da familiari di malati).

“Ci sono un sacco di cose spaventose e spiacevoli nella mia vita in questo momento, ma se vedo il cane fare capolino nella mia stanza, venire a salutarmi scodinzolando, giocare con me, non posso fare a meno di sorridere… suppongo che stia cercando di apprezzare le cose che ho, invece di pensare alle sfide della mia vita o a quello che mi aspetta… Mi riporta semplicemente al momento” (citato da una malata).

Nelle storie e nelle narrazioni dei malati, nelle esperienze del personale, il cane che fa pet therapy è molto più che una semplice “visita di Fido allo zio Pino”. Sebbene la presenza degli animali d’affezione sia ammessa e incoraggiata in Hospice, i conduttori dei cani, insieme agli operatori dell’Hospice hanno molto di più da offrire, con maggiori probabilità di risultati terapeutici.

Il cane che fa pet therapy è “certificato”, altamente formato, ha qualità psico fisiche, competenze, risorse, sensibilità e comportamenti controllati che lo rendono adatto ad una interazione terapeutica con il malato. D’altra parte, il buon esito della seduta è fortemente condizionato dalla competenza dell’operatore di pet therapy e dalla collaborazione attiva dell’équipe della struttura. In Hospice non c’è solo un briefing iniziale e finale tra il conduttore del cane e l’operatore della struttura, ma il personale in servizio partecipa spesso alle sedute così da poter realizzare un intervento multisistemico e il passaggio di informazioni “dirette” ai colleghi dell’Hospice. In questo modo i risultati sono maggiori e c’è maggior coinvolgimento; viceversa, la sola pet therapy resterebbe una bella esperienza ma poco integrata nel piano di cura del malato.

Avere le risorse fornite da Una Mano alla Vita per fare pet therapy regolarmente ha sicuramente un impatto positivo sulla qualità di vita dei malati in Hospice, che non vedono l’ora di rivedere il cane, ne parlano al personale e ai familiari e raccomandano di proseguire con questa attività:

“E’ bello poter godere del passaggio di Popper e della sua ‘mamma’, lo aspetto, è un momento prezioso che rende il tempo e il soggiorno qui un’esperienza di amore puro. Ringrazio per questa  coccola pelosa! Continuate così! Per chi ha animali, ma anche per chi non ne ha, è meraviglioso; è un dono senza prezzo, ricco di umanità ed empatia” (citato da un malato).

 

Claudio Niniano – Musicoterapeuta

Sono ormai otto anni che una volta alla settimana varco le soglie dell’hospice il Tulipano di Niguarda. Molte cose sono cambiate: medici, infermieri, pazienti, tecniche d’intervento… sono cambiato io. Alcune cose invece sono rimaste invariate, come la volontà di creare la migliore assistenza al malato terminale attraverso la cooperazione delle diverse figure professionali.
La musicoterapia in Hospice prevede l’utilizzo del suono e della musica come elementi principali di un percorso assistenziale mirato, il quale si propone, attraverso le diverse tecniche proprie della disciplina musicoterapica, di sostenere il paziente durante i suoi ultimi giorni di vita. L’ascolto condiviso di musiche proposte dai pazienti o dai loro familiari, la musica dal vivo nelle stanze di degenza, l’improvvisazione musicale con strumenti idonei anche a chi non ha mai suonato prima, il songwriting, sono le tecniche attraverso le quali i malati tornano a impossessarsi della loro parte sana, recuperando ricordi, emozioni perdute, curiosità e la capacità di comunicare a livello profondo.

Nella mia esperienza di musicoterapeuta è fondamentale il confronto con medici, infermieri e operatori sanitari. Sono loro che decidono chi inviare alla musicoterapia, che raccolgono le informazioni necessarie e i desideri dei pazienti. Senza la loro cooperazione il mio lavoro sarebbe molto più difficile. Una volta che insieme si è deciso da quali malati andare, comincia il mio lavoro sul campo, ossia nelle stanze di degenza. Quindici camere, quindici porte, quindici realtà diverse e complesse. Entrare nella stanza del malato è un po’ come entrare in casa sua, la sua ultima dimora.
Per questo, anche dopo diversi anni, mi muovo in punta di piedi, come se fosse sempre la prima volta, cercando di rispettare lo spazio in cui sono e mettendomi in una posizione di ascolto. E’ questa la base del mio lavoro: creare uno spazio in cui i pazienti possano sentirsi ascoltati, anche nel silenzio.

Ricordo che non molto tempo fa sono entrato nella stanza di Maria, una donna estremamente compromessa dal punto di vista fisico e cognitivo a causa di un tumore cerebrale. La sua comunicazione con il mondo esterno è limitata a qualche movimento: un battito di ciglia, una leggera
stretta di mano, un respiro profondo, una leggera modificazione della posizione del capo. Con lei la sorella piu’ giovane, il marito e i due figli (un ragazzo e una ragazza sui vent’anni). Quando entro nella stanza la sorella e il marito mi vengono incontro con un sorriso stanco. Mi dicono che Maria ama la musica. La figlia è seduta di fianco al letto e stringe la mano della madre. Il figlio è appoggiato al muro, dietro la sorella. Mi avvicino al letto e mi presento. Maria guarda verso la finestra e sembra non accorgersi della mia presenza. Mi siedo alla sua destra dopo aver posizionato la cassa bluetooth che utilizzo per gli ascolti condivisi. Il respiro di Maria è lieve e regolare. Il marito mi dice che i suoi cantanti preferiti sono Lucio Battisti e Zucchero. L’atmosfera nella paura e tristezza. Questo, oltre al livello energetico della paziente che si rivela molto basso, mi porta a proporre musiche con un ritmo e una dinamica che rispettino il luogo e la situazioni in cui mi trovo. I brani scelti insieme ai familiari sono “Il mio canto libero” di Battisti e “Diamante” di Zucchero.
La musica si diffonde nella stanza e con essa anche la commozione dei presenti. Questi a turno si avvicinano a Maria, le stringono la mano, le accarezzano il viso, le baciano la fronte e le parlano. Il marito le dice: “… ti ricordi… questa la ascoltavamo quando portavamo i bambini al mare in Liguria…”.

Maria sbatte le palpebre e ha dei momenti in cui il suo respiro diventa piu’ profondo. Dopo questi due ascolti chiedo alla famiglia se vogliono che sia io a suonare per loro. Con entusiasmo accettano la mia proposta. Prendo la chitarra e suono un brano che penso possa essere in linea con le musiche appena ascoltate: “Piazza Grande” di Lucio Dalla. La sorella mi conferma che è una buona scelta con un cenno del capo. Suono e canto con delicatezza come se la musica fosse una carezza, un messaggio discreto ma potente, un atto di presenza che spazza via la solitudine e scalda le coscienze. Il
marito e il figlio di Maria si abbracciano e in silenzio condividono qualche lacrima.
Maria accelera leggermente il respiro e per la prima volta da quando sono entrato in stanza mi guarda. I nostri occhi si incrociano per qualche istante e poi Maria torna a rivolgere lo sguardo verso la finestra. silenzio per qualche istante. La seduta è conclusa. Mi avvicino a Maria. La ringrazioper il suo tempo e per il suo ascolto. Poi saluto i familiari. Il marito mi accompagna alla porta, mi stringe la mano e mi dice: “… grazie… è stato un momento importante per tutti noi…”. Maria muore dopo pochi giorni.

Mi sento grato per aver condiviso un piccolo pezzetto della sua vita attraverso la musica. Questo è solo un piccolo estratto della realtà che vivo in Hospice, ed è solo una fotografia tra le tante di quello che l’impegno economico di Una Mano alla Vita rende possibile.

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